Ucraina. Ad un anno dall’inizio del conflitto l’Europa sempre più attore non protagonista

All’alba del 24 febbraio 2022, la Russia inizia l’invasione del territorio ucraino. Le prime tenui luci del mattino sono state accompagnate, per noi tanto lontani quanto inermi spettatori, da quelle bluastre di televisori e cellulari, tutti raccontando la stessa storia: la guerra è tornata in seno all’Europa; quanto di più distante e doloroso la nostra storia ha dovuto affrontare si ripete in uno scontro aperto, sul confine russo-ucraino, con la pretesa del Cremlino di “liberare” la popolazione russofona schiacciata dal gioco della propaganda NATO e europea.

Le diseguaglianze militari e tattiche sono state fin da subito lampanti: il Cremlino puntava ad un attacco-lampo, un’atroce e sanguinosa quanto repentina slavina armata sarebbe dovuta scivolare dal confine sino a Kyiv, cambiandone i connotati politici e instaurando un governo di ampie collaborazioni con Mosca, non a caso, in particolare nei primissimi comunicati provenienti dalla Russia, si parlava così spesso di operazione “peacekeeping”, un’azione volta a ristabilire la pace, con le bombe e i fucili, in particolare nelle aree del Donbass, negli oblast di Luhans’k e Donec’k .

I primi giorni, anzi, le prime settimane, hanno certamente lasciato presagire il peggio, complice forse la mancata lungimiranza europea, tipica di chi strabuzza gli occhi, incredulo rispetto al grottesco sipario che si dipana innanzi.

Il sostegno degli USA, dell’UE e di tanti altri Stati del globo non si è fatto attendere (come non sono mancati i sostenitori della controparte russa e gli ambigui neutrali), prima con sanzioni sempre più invalidanti, poi con un vero e proprio sostegno militare, fornendo strumenti, armi e addestramento, il tutto per cercare di costruire  almeno la speranza di una solida resistenza, coadiuvando il temprato spirito della popolazione ucraina al progresso militare e alle limitazioni diplomatiche e istituzionali.

L’invasione Ucraina trova radici in una logica imperialista, praticamente zarista: l’obiettivo ultimo di ricongiungere la figliuol prodiga alla Russia, come nelle più distorte parabole bibliche, è lo stendardo, lo slogan del camaleontico presidente Putin, capace di articolare la sua retorica in base al flusso dei venti e del malessere della popolazione, in grado di giustificare mobilitazioni militari di massa, arruolamenti quasi indiscriminati, con l’immaginario della Russia unita, un filone politico tra l’altro condiviso anche dal presidente cinese Xi Jinping con la sua “One China policy”, che coinvolge, in una condizione dalle sfaccettature sufficientemente affini alla situazione ucraina, ma comunque con spiccate diversificazioni, Taiwan.

Ad oggi ci ritroviamo innanzi ad una fallimentare attività irredentista, che da guerra-lampo ha assunto i crismi di uno scontro di logoramento su più fronti: militare, economico, sociale, culturale. La quiete di cui l’Europa si fregiava è venuta meno, coinvolgendo addirittura la storica neutralità dei paesi scandinavi e scuotendo anche l’unità d’intenti dei governi della nostra parte del vecchio continente, che viaggiano spesso a diverse velocità sulla questione; proprio per questo, infatti, al centro del dibattito nostrano, ma in generale europeo, è fervente il tema del fornire o meno armi all’Ucraina, del se limitarsi ai beni medici e alimentari di prima necessità, del se leggere un messaggio del presidente Zelensky in TV o farlo comparire in video.

 I timori più sentiti, serpentini in Europa, riguardano la durata di questo conflitto, la sua difficile risoluzione, la possibilità di un conflitto nucleare e soprattutto il coinvolgimento collaterale che sempre più rende partecipi, in maniera importante, Stati esterni alla guerra, ma presenti nella storia della stessa. Gli approvvigionamenti ci sono, la solidarietà umana non manca, in particolare da parte delle persone comuni rivolta alle persone comuni: le iniziative locali e nazionali sono state molteplici e hanno avuto a più riprese la risonanza sperata; ciò che è divenuto rarefatto, a distanza di un anno, come l’ossigeno dopo un bombardamento è lo spiraglio di un tavolo per i negoziati, un incontro di discussione, che se in un primo momento pareva essere possibile, ad oggi è quanto di più lontano si possa chiedere alle parti, con ragion veduta, soprattutto dopo gli episodi di cruenta specie di Bucha e Irpin, lasciando così, in balia della più grande incertezza, il cuore pulsante, forse un po’ più lentamente di prima, d’Europa.

Dott. Mario Marrandino

Studioso di Diritto Costituzionale Russo

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